Scienza e Filosofia, storia di una relazione

Scienza e Filosofia, storia di una relazione

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La scienza, così come la filosofia, non ha avuto una definizione unica ed univoca nel tempo. Ci sono stati periodi nei quali filosofia e scienza sono state un’unica cosa; altri nei quali hanno designato due diversi modi di rappresentare la realtà, talvolta sono state in competizione ed anche in totale contrasto, tanto da ritenersi l’una priva di senso se non addirittura dannosa rispetto all’altra.

Ma prima di addentrarci sul rapporto esistente tra la scienza e la filosofia è necessario dare una definizione di cosa s’intende, oggi, per scienza e cosa per filosofia.

La scienza si può definire come un sistema di conoscenze acquisite tramite osservazioni ed esperimenti elaborati sulla base di rigorosi procedimenti logici, verificabili e ripetibili,

mentre la filosofia è analisi della realtà, del mondo e dell’uomo, del loro senso e fine.

Già da queste definizioni appare evidente che la scienza è autonoma, procede secondo un suo metodo, il metodo scientifico, ma non ha un fine preciso. Potremo affermare che ha una natura pragmatica ma non teleologicamente definita.

La filosofia, invece, ha un fine preciso che nasce dal desiderio di conoscere la verità. Un bisogno che, secondo Platone e Aristotele, ha la sua origine dalla meraviglia che prova l’uomo quando si pone davanti all’universo come un Tutto. La filosofia si pone come impostazione unitaria della conoscenza, e come discussione dei suoi limiti e delle sue possibilità, ha un fine preciso ma non un metodo specifico. Potremo quindi dire, almeno questa è la mia idea, mi perdonerà Peirce, che la filosofia è pragmaticistica (termine che il padre del pragmatismo attribuiva invece al metodo scientifico, da lui ritenuto l’unico sufficientemente elastico da essere efficacemente in ascolto della realtà), ma teleologicamente definita. A differenza della scienza la filosofia è disposta a mettere in discussione il metodo della ricerca – ma non la ricerca (e in ciò conformemente alla scienza) – ed il suo fine.

La filosofia, come detto, non ha un metodo univoco ma i filosofi nel tempo hanno individuato dei punti fissi e fondamentali per l’analisi: il cogito di Descartes, i dati sensoriali degli empiristi, le verità metafisiche necessarie dei razionalisti. Tutti punti validi all’interno della teoria, tali da poter essere di base a tutto il resto della conoscenza e dei valori ma non certi in assoluto. Infatti il già citato Peirce sosteneva, in opposizione a Descartes, che nulla è esente da dubbio.

Nell’antica Grecia non vi era sostanziale distinzione tra filosofia e scienza, entrambe avevano come obiettivo quello di raggiungere una verità relativa ai valori universali, al vero, al giusto, al bene, la cui essenza secondo Platone non era altro che lo strumento per agire bene per la comunità.

Con l’osservazione diretta della natura e la conoscenza ricavata dall’esperienza, utilizzando un metodo matematico sperimentale e non più un matematico deduttivo, avviene la separazione tra la scienza e la filosofia con una netta svalutazione della seconda, intesa come inutile metafisica.

Tale contrapposizione, ancora imperante, per lo più nel senso comune, vede però dalla fine del novecento anche una diversa interpretazione.

Lamberto Tagliasacchi

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2 commenti

  1. La filosofia impone che il paradigma della parola tempo debba valere sia per una particella elementare quanto per l’intero Universo. Percepiamo il trascorrere del tempo per la consapevolezza della modificazione di ciò che ci circonda. IL tempo è il prodotto della trasformazione della materia, per cui la durata (unico sinonimo di tempo) di un fenomeno
    si misura per confronto analogico con l’orologio che è una macchina che produce una frequenza (in quelli atomici definisce un periodo che è l’inverso della frequenza) cioè trasformazioni più rapide della durata del fenomeno da misurare, che vengono conteggiate, dallo spostamento delle lancette. Nella misura del tempo, l’orologio deve iniziare a funzionare nello stesso istante in cui avviene il fenomeno e fermarsi nello stesso istante in cui si conclude. La parola tempo sottintende intervallo di tempo, anche un istante di tempo, per quanto breve, è un intervallo di tempo. La simultaneità tra fenomeni è sempre relativa a come ,per convenzione, si stabilisce l’istante di tempo più breve. Un orologio è tanto migliore quanto più alta e stabile è la frequenza che produce, perché si possono discretizzare (e dunque misurare) le durate di fenomeni più bravi ed è tanto più utile, quanto maggiore è la frequenza che produce, perché può misurare la durata di fenomeni più rapidi, o il tempo di un fenomeno, con maggiore approssimazione. L’orologio ideale è quello che ha la frequenza pari all’inverso della più rapida trasformazione di materia perché può misurare il tempo (la durata) di tutti i fenomeni.
    Perché non si è pervenuto ad un così banale concetto di tempo? Anni fa ad un importante fisico italiano, in un convegno, fu chiesto cosa fosse il tempo ed egli affermò che non era interessato a come intendere il tempo (sic!) per cui non gli era possibile definire un concetto di tempo coerente con questi.) ma riuscire a misurarlo con la massima precisione. Aggiunse poi che un orologio in moto misura tempi più lunghi rispetto ad uno identico fermo, mentre un orologio posto, sul monte Bianco misurava un tempo più breve ad uno uguale fermo a Torino (stiamo parlando di orologi atomici e di scarti dell’ordine di nanosecondi). Risultati rilevati in via sperimentale e inspiegabili. Io sostengo che un orologio in moto è diverso da uno identico fermo, perché, è sperimentato, negli acceleratori di particelle, che la velocità incrementa la massa delle particelle in moto (compresi gli elettroni che saltano da un livello quantico all’altro nel nostro orologio. Un orologio che sta sulla Terra è diverso (e funziona diversamente da uno che si trova a cinquemila metri d’altezza d’altezza) con gli stessi elettroni soggetti a forze minori per via della La legge della Gravitazione Universale.
    Il tempo di una particela elementare è l’inverso della sua frequenza elettromagnetica; il tempo dell’Universo è l’intervallo di tempo che va dal Big Bang al Big Crunch, per cui l’ETERNITA’ è una sequenza indefinita di tali intervalli.
    Chiudo questo breve scritto riportando quanto scrive CARLO ROVELLI in “Sette brevi lezioni di fisica” a pag.15: “Ogni tanto alzavo gli occhi dal libro per guardare lo scintillio del mare: mi sembrava di vedere l’incurvarsi dello spazio e del tempo (quindi materiale) immaginati da Einstein”.

  2. Gli errori della fisica prodotti dal distacco dalla filosofia

    Se chiedete ad un Fisico perché nell’esperimento di Michelson-Morley non si ha lo slittamento delle frange d’interferenza dei due raggi, ruotando le braccia dell’interferometro, non saprà darvi una risposta.
    Un Filosofo, utilizzando la sola logica risponderà che i due raggi viaggiano alla stessa velocità e percorrono la stessa distanza per cui le frange iniziali restano inalterate.
    Nessun fisico del l887 né uno attuale potrebbe accettare una risposta così ovvia e banale, anche se vera, perché ha una falsa idea della Terra (dei pianeti, e dei corpi materiali in generale) frutto di antichi errori di valutazione e fenomeni non compresi e dunque dimenticati.
    E’ capitato a tutti di sdraiarsi su un prato o su una spiaggia e godersi il meraviglioso spettacolo del lento modificarsi sopra le nostre teste di quelle grandi nuvole bianche che assumono le forme più strane, cui cerchiamo, con un po’ di fantasia, di associare a forme umane o animali o altro.
    Quante volte, da convinti copernicani, ci siamo chiesti se quello spettacolo non contrastasse la teoria per cui la Terra (intesa come globo terraqueo) ruoti all’equatore a quattrocento sessanta metri al secondo attorno al proprio asse e rivoluzioni a trentamila chilometri all’ora attorno al Sole.
    In effetti o si è sulla superficie terrestre o ad una certa altezza da questa, ma comunque nell’ambito del suo campo gravitazionale, siamo, senza nulla avvertire, costretti a seguire i moti che interessano il pianeta che ci ospita.
    C’è chi ritiene che l’atmosfera terrestre ruoti, a basse quote, solidalmente alla Terra per cui non notiamo il suo moto di rotazione.
    La cosa potrebbe anche avere un senso se l’atmosfera fosse materia coesa, ma questa è costituita da atomi e molecole di gas che si muovono in tutte le direzioni in rapporto allo stato energetico in cui si trovano.
    La forza gravitazionale terrestre non può giustificare detto fenomeno, perché se ci alziamo da terra con un elicottero e ci fermiamo ad una certa altezza, non scorgiamo scorrere il pianeta sotto di noi, bensì ci ritroviamo sempre sulla verticale da cui siamo partiti perché ruotiamo alla stessa velocità della Terra.
    Se così non fosse sarebbe sufficiente alzarsi dall’Italia con un aerostato, attendere all’incirca sei o sette ore e scendere negli USA.
    Al copernicano Galilei, i Tolemaici fecero osservare che la rotazione terrestre implicava un conseguente vento d’Oriente di cui non si rilevava traccia e che un grave che cade da una torre scende lungo la verticale, ignorando la rotazione terrestre.
    L’atmosfera terrestre assume forme diverse localmente, ma nell’insieme ruota anch’essa solidalmente alla Terra.
    L’insanabile contraddizione tra questi dati incontrovertibili è risolvibile solo se si ipotizza un contesto dove la teoria copernicana possa convivere con la rotazione solidale alla Terra dei corpi materiali.
    Se definiamo (impropriamente) etere l’insieme di tutte le onde elettromagnetiche naturali le relative frequenze, considerata la spinta che riceve un elicottero per ruotare solidalmente alla Terra, è da ritenere che questo è costituito da particelle con massa a riposo o in agitazione.
    A riposo o in agitazione, solo se ha massa l’etere può obbligare i corpi che si trovano in essa a ruotare solidalmente alla Terra.
    Anche i gas dell’atmosfera sono ingabbiati nella rete materiale che costituisce l’etere, per cui possiamo considerare che la Terra (come tutti corpi materiali) è avvolta in un suo etere di appartenenza.
    Newton, nel costruire la sua fisica dovette far propria la legge della caduta dei gravi, per cui ipotizzò che tutti i corpi cadono con la stessa accelerazione perché subiscono due effetti che si compensano.
    Da una parte c’è la forza di gravità (forza insita) che è proporzionale alla massa gravitazionale del corpo, dall’altra la forza d’inerzia (forza impressa) che è proporzionale alla massa del corpo.
    Se in un laboratorio terrestre, da cui sono stati evacuati tutti i gas, poggiamo un corpo su di una bilancia per misurarne la forza peso, la massa è detta gravitazionale. Se si lancia lo stesso corpo, questi, durante la spinta viene accelerato; il rapporto tra la forza impressa e l’accelerazione derivata è detta massa inerziale, perché (secondo Newton) si oppone alla variazione di velocità.
    Se si raccoglie il corpo dopo il lancio e lo si pesa, avremo lo stesso risultato ottenuto dalla massa gravitazionale.
    Le due masse sono uguali e quindi (sostiene Newton) i corpi pesanti se da una parte sono attirati maggiormente dalla Terra, dall’altra resistono anche maggiormente a modificare il loro stato.
    L’ipotesi newtoniana è sconcertante perché illogica, si ipotizza che la massa di un corpo può, nello stesso tempo. essere causa del moto (gravitazionale) e frenare il moto medesimo (inerziale).
    Poiché non è possibile contestare l’ipotesi newtoniana ricorro al Filosofo Greco Protagora per il quale: “L’uomo (individuo) è la misura di tutte le cose, delle cose in quanto sono, delle cose che non sono” (dove “cose” sono gli oggetti percepiti attraverso i sensi).
    La verità scoperta da Galilei provoca, ad un attento esame, sconcerto, tra ciò che vediamo, l’arrivo contemporaneo dei diversi gravi, da quanto presumevamo prima di farli cadere, con l’arrivo a terra di quello di massa maggiore.
    Anni fa verificai la reazione dei bambini di fronte alla contraddizione tra le sensazioni descritte in precedenza, entrambe certamente vere, per cui realizzai due sfere identiche, una di piombo e l’altra di legno.
    Proposi a Loris (12 anni) di dirmi quale delle due sfere sarebbe arrivata prima a terra. Non senza una certa presunzione, rispose che sarebbe precipitata prima la sfera di piombo perché “sfugge dalle mani per portarsi a terra”.
    Nel vedere cadere assieme le due sfere abbandonò con sdegno il gioco perché non tollerò la sconfitta.
    Riproposi l’esperienza a Federica (8 anni) che quando verificò il risultato, per non accettare l’errata previsione della caduta più rapida della sfera di piombo, sbottò: è una magia! è una magia!
    Cos’è la magia per un bambino se non un trucco invisibile?
    A fronte di un conflitto tra i due sensi, una risposta attendibile è possibile solo se si riesce a definire uno scenario dove le controverse sensazioni possano convivere in termini logici.
    L’unico scenario logico e realistico possibile è rappresentato dal trucco invisibile; vale a dire dall’esistenza di una qualche forma di materia che occupa tutto lo spazio, che attraversata con moto variabile dai gravi imprime a questi una forza resistente al moto in proporzione alla loro massa.
    Per quanto sostenuto in precedenza è l’etere e la sua massa che frena la caduta dei gravi che l’attraversano in proporzione alla medesima massa dei gravi perché un grave in caduta libera può essere frenato solo da elementi materiali (che hanno massa).
    Poiché definisco che l’energia è massa in agitazione, i cosiddetti campi elettromagnetici sono particelle con piccolissime masse che oscillano (si agitano) ad una certa frequenza, che occupano tutto lo spazio. per cui, non esiste nell’universo il vuoto (come assenza) di materia.
    Il contrasto evidenziato tra forza insita e forza impressa trova una più ampia conferma nel contrasto tra la Legge della gravitazione universale e la legge della caduta dei gravi.
    Se nel nostro laboratorio sospendiamo alla stessa altezza due sfere identiche, una di platino ed una di legno sambuco, con la sfera di platino con una massa cinquanta volte la massa del sambuco, con semplici calcoli verificheremmo che la caduta della sfera di platino è cinquanta volte più rapida di quella del sambuco.
    Per la legge newtoniana sulla sfera di platino agisce una forza cinquanta volte la forza che agisce sulla sfera di sambuco ed una velocità di caduta cinquanta volte maggiore.
    La identica velocità di caduta delle sfere è un autentico miracolo, a meno che non si accetta l’ipotesi che è stata formulata.
    Nel XVIII secolo si riteneva che lo spazio fosse formato da una sostanza invisibile che già i filosofi dell’antica Grecia avevano denominato ETERE.
    A metà dell’ottocento Il fisico Maxwell sintetizzò con le famose quattro equazioni l’intero fenomeno elettromagnetico. In queste figuravano due costanti,  costante dielettrica e  permeabilità magnetica caratteristiche del mezzo, ovvero dell’ETERE.
    Si avviarono diverse ricerche, senza un esito positivo, fino a quando il fisico Michelson propose l’esperimento che avrebbe evidenziato l’esistenza dell’ETERE misurando la velocità relativa della Terra rispetto ad esso, e per misurare la suddetta velocità si utilizzò uno strumento che è denominato interferometro di Michelson.
    L’interferometro permette di suddividere un fascio di luce in due fasci che seguono cammini perpendicolari e vengono poi nuovamente fatti convergere su uno schermo, formandovi una figura d’interferenza.
    Il lettore può trovare in ogni buon manuale di fisica la problematica in esame corredata da immagini e calcoli numerici.
    Ripetuto l’esperimento nel corso dell’anno e per diversi orientamenti dei bracci dell’interferometro, Michelson e Morley, ignorando che lo strumento è fisso rispetto alla Terra, perché è immerso nella sua etere di appartenenza, non registrarono alcuno scorrimento delle frange d’interferenza concludendo che la Terra è immobile rispetto all’ETERE.
    Al cosiddetto fallimento di Michelson-Morley seguirono anni di sconforto perché quell’esperimento rappresentava il coronamento di un secolo di ricerche e successi nel campo elettrico e magnetico.
    Negli anni seguenti l’esperienza fu condotta con diverse fonti luminose (sole e stelle), con strumenti di rivelazione più sofisticati capaci di rilevare spostamenti tra Terra ed ETERE di pochi millimetri ma con identico esito.
    I risultati smentivano l’ipotesi dell’esistenza di un ETERE immobile che la Terra attraversa nei suoi moti, infatti attraversa l’etere immobile con la sua etere di appartenenza.
    L’atteggiamento intellettuale dei fisici fu filosoficamente discutibile: se un dato sperimentale è vero (perché verificato indefinite volte) ma contrasta l’ipotesi teorica su cui è fondata l’esperienza che l’ha prodotto, un minimo di logica avrebbe preteso che si riconducesse l’ipotesi al risultato, piuttosto che rinnegarlo in toto, affermando la non esistenza di un supporto materiale della luce.
    Nel 1905, dopo oltre vent’anni di stallo, Albert Einstein propose con la cosiddetta Teoria della relatività speciale il superamento dell’impasse. Ben lungi però dall’offrire una soluzione all’irrisolta questione, propose una teoria costruita su due postulati, uno dei quali sostiene che la velocità della luce nel vuoto è costante e non dipendente, o è invariante se la sorgente o l’osservatore si muovono con moto uniforme.
    Il postulato è il prodotto di una la lettura del risultato dell’esperimento di Michelson, anche se lo svizzero ha spesso negato di aver considerato il risultato di quell’esperimento nel definire la sua teoria della relatività.
    L’invarianza della velocità della luce, e più in generale delle onde EM, rispetto a sistemi di riferimento inerziali, ha trovato ampia conferma, perché collima con le nostre ipotesi.
    Se si invia, ad esempio, un segnale EM da Roma a New York o viceversa la durata del segnale è la stessa nonostante il segnale che ha viaggiato nel senso di rotazione della Terra abbia percosso una distanza minore.
    Lo stesso risultato si ottiene se si collega Roma a New York con un cavo elettrico e si invia un segnale. Questo impiegherà lo stesso tempo perché la distanza tra le due città è sempre la stessa.
    Se si suppone la materialità della luce (e in generale delle onde EM), e non si osservano spostamenti delle frange d’interferenza, nell’interferometro, significa che la Terra, come tutti i corpi materiali, è circondata da una sua etere di appartenenza che ruota solidalmente ad essa, e l’esperienza di Michelson-Morley ne è la conferma, perché perfettamente riuscita.
    Il nostro etere, come già detto, è costituito da particelle con massa a riposo o in agitazione.
    A riposo o in agitazione la massa dell’etere svolge un ruolo determinante nell’obbligare i corpi che si trovano in essa (o meglio l’attraversano) sulla Terra o nelle sue vicinanze a ruotare solidalmente ad essa. Rotazione determinata da un ingabbiamento di tali corpi nella rete materiale che lo costituisce.
    Se consideriamo che siamo immersi in un ambiente elettromagnetico, un indizio sul valore della forza di trascinamento (è compito dei Fisici valutarne il vero valore) in cui sono immersi i corpi materiali è possibile dall’analisi della pesa che spesso facciamo per controllare la linea.
    Quando ci pesiamo con la bilancia pesapersone con indicatore meccanico a lancetta o dischetto rotante verifichiamo che l’indicatore non riesce a stare fermo, ma oscilla intorno ad una data misura.
    Se adagiamo sulla bilancia un oggetto verifichiamo che l’indicatore dopo qualche istante resta sempre fermo.
    Quando ci pesiamo, l’oscillazione della lancetta è prodotta dagli involontari e impercettibili movimenti del nostro corpo – nonostante non spostiamo i piedi dalla bilancia – che non ci riesce di tenere completamente fermo.
    Il fenomeno ci sembra del tutto naturale e infatti lo imputiamo alla instabilità dell’equipaggio mobile della bilancia, senza renderci conto che questo è meno ovvio di quanto non appaia.
    La bilancia pesapersone è un dinamometro, strumento con cui si misura la forza, che, nel caso in esame, è detta forza-peso quale prodotto della massa del mio corpo per l’accelerazione di gravità.
    Poiché la massa del mio corpo e l’accelerazione di gravità non mutano, non vi è alcuna causa apparente che giustifica il fenomeno.
    Per meglio rappresentarlo accentuiamo il fenomeno; si ha maggiore chiarezza se la pesa è fatta su una basculla con cui si pesano le granaglie, per via della lunghezza e lentezza della lancetta.
    Quando sto fermo peso intorno agli ottanta chili; se di scatto assumo la posizione accovacciata, durante la discesa l’indicatore della bilancia scende fino a circa trenta chili per poi riportarsi a ottanta quando sono di nuovo fermo.
    Pertanto detta m la massa del mio corpo, g l’accelerazione di gravità. m la massa del corpo che ho spostato verso il basso e a l’accelerazione relativa, la pesata minima è
    Pm = mg – dma
    nonostante g e a hanno lo stesso verso.
    Inverto l’esperienza passando, sempre in modo accelerato dalla posizione accovacciata a quella eretta e verifico che durante la risalita l’indicatore sale fino a centrotrenta chili per poi riportarsi a ottanta quando sono di nuovo fermo.
    La pesata massima è
    PM = mg + dma
    nonostante g e a hanno versi opposti.
    L’aumento del peso quando passo da accovacciato ad eretto indica, in termini incontrovertibili, che nel sollevarmi ho incontrato una resistenza contro cui ho dovuto far leva: una resistenza materiale quando la massa del mio corpo da dovuto attraversare quella materia, che nella prima pesa ha trattenuto non facendo gravare sulla bilancia la parte del mio corpo che si abbassava.
    Il cosiddetto fallimento dell’esperimento di Michelson-Morley suggerì ad Albert Einstein “Elettrodinamica dei corpi in movimento” che fu oggetto di severe critiche da parte di fisici, matematici e filosofi della scienza.
    L‘epistemologo Pierre Duhem affermò, pressappoco, che al cospetto della teoria della relatività “il senso comune (o Logica) fugge via terrorizzato”.
    Negli anni a seguire la teoria superò gli ostacoli iniziali e si affermò come il punto di vista da cui osservare e descrivere i fenomeni naturali.
    Nel 1916 Einstein presentò una versione divulgativa della teoria, (cfr. Albert Einstein – Relatività: esposizione divulgativa. Universale Bollati Boringhieri) con lo scopo, dichiarato nella Prefazione, di “offrire una visione per quanto è possibile esatta della teoria della relatività a quei lettori che si interessano di tale teoria da un punto di vista scientifico generale e filosofico, senza avere familiarità con l’apparato matematico della fisica teorica. L’opera presuppone nel lettore un livello culturale che corrisponde, pressappoco, a quello dell’esame di maturità e richiede – malgrado la sua brevità una buona dose di pazienza e di forza di volontà”.
    Il carattere esplicativo dell’opera consente, contrariamente, alla concisa e matematica “Elettrodinamica”, di confrontare la teoria, con il buon senso comune, come denunciato dall’epistemologo francese.
    A titolo d’esempio proponiamo la lettura del Paragrafo 3. Spazio e tempo nella meccanica classica.
    Nel Paragrafo 3. Spazio e tempo nella meccanica classica Einstein scrive: Io sto al finestrino di un vagone ferroviario che viaggia a velocità uniforme, e lascio cadere una pietra sulla banchina, senza imprimerle alcuna spinta. Allora, prescindendo dalla resistenza dell’aria, vedo discendere la pietra in linea retta. Un pedone, che osserva il fattaccio dal sentiero lungo la ferrovia, vede che la pietra cade a terra descrivendo un arco di parabola. Domando ora: le “posizioni” percorse dalla pietra stanno “in realtà” su una retta o su una parabola? [……] siamo in grado di dire: la pietra percorre una linea retta relativamente a un sistema di coordinate rigidamente collegato al vagone mentre descrive una parabola relativamente a un sistema di coordinate rigidamente collegato al terreno (banchina). Da questo esempio si vede chiaramente che non esiste una traiettoria in sè (vale a dire una curva lungo cui si muove il corpo), ma soltanto una traiettoria rispetto ad un particolare corpo di riferimento”.
    Poiché è caduta una sola pietra, l’acculturato lettore dotato di pazienza e forza di volontà, immagina debba individuarsi l’unica vera traiettoria percorsa dal grave.
    Einstein che si trova in condizioni di moto rispetto alla caduta del grave vede una traiettoria rettilinea, ma, conoscendo la meccanica newtoniana, sa che il grave lasciato libero di cadere è sottoposto allo stesso tempo alla verticale forza di gravità e orizzontale forza d’inerzia, per cui la sua traiettoria è una parabola.
    Difatti sostiene che l’osservatore sulla banchina, quindi fermo rispetto al fenomeno, vede una traiettoria parabolica.
    La conclusione cui perviene però Einstein è stupefacente: uno stesso fenomeno visto in condizioni diverse non solo appare diverso ma è diverso, vale a dire ciò che appare è.
    Einstein e l’osservatore sulla banchina (che stimiamo vicini) valutano lo stesso tempo di caduta, per cui il fisico svizzero valuterà una velocità di caduta ed una energia cinetica del grave minore di quanto non sia in realtà.
    Effetti collaterali evidentemente trascurabili per il grande genio.
    Il fisico svizzero non si rende conto che la sua affermazione è verificabile sperimentalmente ponendo uno strato di sabbia dove cade il grave. Dalla profondità del cratere provocato dal grave può dedursi l’energia cinetica del grave in caduta e dunque la velocità di caduta e dunque l’unica traiettoria.
    Nel prosieguo Einstein tenta (in maniera piuttosto incerta) di definire “La relatività della simultaneità” senza rendersi conto che per per assegnare un significato al termine simultaneità è necessario individuare il significato di tempo perché questa sottintende l’espressione tra tempi.
    Einstein non sapeva cosa fosse il tempo né si è premurato, nella sua straordinaria opera, di ipotizzarne una definizione. Ancora oggi la questione è irrisolta.
    Non sapendo cosa fosse il tempo, non coglieva nemmeno la correlazione tra il tempo e l’orologio, ovvero lo strumento della sua misura.
    Infatti nella “Elettrodinamica dei corpi in movimento” aveva profetizzato: “Dobbiamo tener presente che tutte le nostre asserzioni nelle quali il tempo gioca un ruolo sono sempre asserzioni su eventi simultanei. Quando per esempio dico: “Quel treno arriva qui alle ore 7”, ciò significa “Il porsi della lancetta piccola del mio orologio sulle 7 e l’arrivo del treno sono eventi simultanei”.
    Le lancette dell’orologio sulle sette non indicano e non misurano alcunché; esse indicano semplicemente che sono trascorse sette ore da mezzanotte o da mezzogiorno.
    Nel Paragrafo 9. “La relatività della simultaneità” tra l’altro scrive:
    Le nostre considerazioni sono state finora svolte rispetto ad un particolare corpo di riferimento, a cui abbiamo dati il nome di “banchina ferroviaria”.
    Supponiamo che un treno molto lungo viaggi sulle rotaie con velocità costante v e verso destra.
    […….] Ora però si presenta, come conseguenza naturale, la seguente domanda: due eventi (per esempio i due colpi di fulmine A e B) che sono simultanei rispetto alla banchina ferroviaria saranno tali anche rispetto al treno?
    [..….] Sia M’ il punto medio dell’intervallo AB sul treno in moto. Proprio quando si verificano i bagliori del fulmine (giudicando dalla banchina), questo punto M’ coincide naturalmente con il punto M, ma esso si muove verso destra del disegno con la velocità v del treno.
    Se un osservatore seduto in treno nella posizione M’ non possedesse questa velocità, allora egli rimarrebbe permanentemente in M e i raggi di luce emessi dai bagliori del fulmine A e B lo raggiungerebbero simultaneamente, vale a dire s’incontrerebbero proprio dove egli è situato. Tuttavia nella realtà (considerata con riferimento alla banchina ferroviaria), egli si muove rapidamente verso il raggio di luce che proviene da B, mentre corre avanti al raggio di luce che proviene da A.
    Pertanto l’osservatore vedrà il raggio di luce emesso da B prima di vedere quello emesso da A. Gli osservatori che assumono il treno come loro corpo di riferimento debbono perciò giungere alla conclusione che il lampo di luce B ha avuto luogo prima del lampo di luce A. Perveniamo così al seguente importante risultato: gli eventi che sono simultanei rispetto alla banchina non sono simultanei rispetto al treno e viceversa (relatività della simultaneità);
    Questo brano, banale nella formulazione della simultaneità, è a dir poco sconcertante nella conclusione. Un minimo di buon senso impone che se l’arrivo sui binari dei raggi A e B è simultaneo per l’osservatore fermo sulla banchina e dunque fermo rispetto al fenomeno è simultaneo anche per l’osservatore che sta sul treno.
    E’ certo che questi non assisterà alla simultaneità dei raggi A e B perché la velocità finita della luce fa si che egli veda il raggio B con un certo anticipo su A, ma se è cosciente di trovarsi su un treno che si muove con una precisa velocità uniforme verso destra, dalla differenza dei tempi con cui avverte i raggi in B ed in A dedurrà la simultaneità del fenomeno.
    Conoscendo la velocità della luce saprà valutare anche la velocità del treno rispetto alla banchina.
    In conclusione il fisico svizzero, con l’espressione, eventi che sono simultanei rispetto alla banchina non sono simultanei rispetto al treno e viceversa, sostituisce al relativismo dei diversi punti di vista in un irreale relativismo del fenomeno.

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