La Paura, ieri come oggi - parte 1
Ci sono volte nella vita di chiunque in cui si sperimenta la paura, ma ci sono anche momenti nella storia, in cui si riconosce una paura diffusa. Oggi, per la contingente pandemia, si saggia e si vede rappresentata nei mass media. Ma cos’è quest’emozione e perché esiste?
Aristotele definisce la paura come la sofferenza per un male imminente ed ineludibile, legata alla previsione di tale male più che al suo improvviso manifestarsi, è una paura non immediata che deriva dall’impossibilità di contrastare il male imminente.
Gli psicologi definiscono la paura come un’emozione primaria, ovvero innata, comune sia al genere umano sia al genere animale, che si attiva quando abbiamo la sensazione di una minaccia, di un pericolo, che può essere reale o prodotta dalla fantasia. Essa si manifesta in due modi, a seconda che sia determinata a uno specifico oggetto (reale o no) o sia, invece, un sentire profondo del nostro essere che ci scuote dalle radici.
Questo, secondo modo, è quello che Hegel definisce “paura assoluta” e che si può intendere come paura della morte, un timore diffuso, privo di oggetto specifico, timore di vedere negata la vita stessa; paura della negazione.
Nel cammino della coscienza verso l’autocoscienza occorre, secondo il filosofo tedesco, che la coscienza viva concretamente ed effettivamente il proprio essere in azione e la propria irriducibilità al mondo degli oggetti, unico modo per perdere il carattere di una astratta affermazione e diventare esperienza vissuta. Solo così, la coscienza diventa concretamente una autocoscienza umana (in quanto il riconoscimento necessario non può venire all’autocoscienza da un oggetto: nessun sasso, nessun albero potrà riconoscermi come umano; solo un altro umano lo potrà fare) e la sua attività sarà, non solo astrattamente dichiarata, ma anche effettivamente realizzata.
Su questo piano, l’esperienza della paura, della paura assoluta, emerge e riveste un significato fondamentale, la lotta per il riconoscimento è infatti descritta da Hegel come una guerra tra i due contendenti che si confrontano con il rischio di morte. La coscienza che avrà avuto paura di perdere la vita si assoggetterà all’altra, ammetterà di non essere pienamente umana. L’autocoscienza vincitrice assurge al ruolo di aristocratico guerriero, mentre la soccombente di servo, accetta di negare la propria umanità perché ha provato una esperienza di paura, di paura assoluta, non assimilabile all’ansia (paura per qualcosa di determinato, paura di vedere negato qualcosa), ma all’angoscia.
Si tratta di una paura senza oggetto, una paura sciolta da qualunque rapporto con qualsivoglia determinazione, è l’esperienza del trionfo dell’indeterminato, l’esperienza del puro indifferenziato è l’angoscia del nulla come negazione di ogni determinazione e di ogni forma. In questi stessi termini si esprime Freud quando descrive la pulsione di morte che emerge in una direzione opposta e complementare alle spinte orientate verso il piacere. Questa pulsione non è infatti in una relazione dicotomica con la pulsione di piacere, ma è legata ad essa da un rapporto di complementarità, rapporto che nel linguaggio freudiano è riassunto nel binomio Eros – Thanatos. La pulsione di morte opera in ogni essere vivente ed ha come aspirazione di ricondurre la vita allo stato della materia inanimata e l’essere vivente protegge la propria vita in quanto ne distrugge una estranea.
La pulsione di morte descritta da Freud è la paura assoluta rappresentata da Hegel nell’autocoscienza servile. Tale raffigurazione è similmente individuabile anche in Sartre nell’esperienza dell’angoscia presente nel famoso romanzo intitolato La nausea.