Il cervello e la percezione della bellezza.

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Integralmente tratto dall’editoriale del n. 175 di Mind, 27 giugno 2019, Marco Cattaneo.

 

La bellezza salverà il mondo. L’abbiamo sentita un milione di volte, questa frase. Viene da uno dei capolavori di Fëdor Dostoevskij, L’idiota. E viene attribuita al principe Miškin, protagonista del romanzo, che però non l’ha mai pronunciata.

 

La parola bellezza ricorre 43 volte  nell’opera. E sulla frase incriminata il principe viene insistentemente interrogato – «È  vero, principe, che una volta avete detto che la “bellezza salverà il mondo”?» – ma si guarda dal rispondere. Quello che nessuno ricorda, invece, è che molte pagine prima, in una conversazione con Aglaja, la figlia minore del generale Epancin, Miškin pronuncia parole assai più comprensibili, e forse anche condivisibili: «È difficile giudicare la bellezza. Non vi sono ancora preparato. La bellezza è un enigma». Che spiegano forse anche il suo successivo silenzio.

 

D’altra parte i filosofi discutono da un paio di millenni abbondanti dell’esistenza di criteri universali della bellezza. Gli antichi peraltro ne erano certi, ciascuno a suo modo. È simmetria per i pitagorici, eros per Platone, opera divina per la scolastica medievale.

Arrivati ai giorni nostri, vediamo invece che non solo è soggettiva l’idea di bellezza, ma persino i criteri attraverso i quali abbiamo cercato di codificarla nella storia. Peggio. La bellezza cambia, e anche rapidamente, nel tempo e nello spazio. Basti pensare alla diversità dei valori estetici delle culture umane. E cambia persino l’idea individuale di bellezza: ciò che ci sembra bello oggi può non esserlo più domani.

 

Ma allora, si chiedono Matteo Cerri (Medico, dottore di ricerca in neurofisiologia) e Federica Sgorbissa (laureata in Psicologia con  dottorato in scienze cognitive, giornalista) qual è la funzione della bellezza? Il primo riprende il dibattito sull’universalità della bellezza dal punto di vista delle neuroscienze e dal lato dell’individuo: «Se un oggetto viene percepito come bello, il cervello deve generare al suo interno questa percezione». Ovviamente non per tutti lo stesso oggetto è ugualmente bello, ma lo studio dei processi che avvengono nel cervello quando si forma il giudizio estetico ha spinto un po’ più in là le nostre speculazioni.

 

Per esempio, sottolinea Cerri, la bellezza attiva un circuito complesso, nel cervello, all’interno del quale c’è però un’area particolarmente interessante della corteccia cerebrale. Si chiama insula, ed è una formazione collocata in profondità in entrambi gli emisferi tra il lobo temporale e il lobo frontale. È qui che ha sede la corteccia gustativa. In qualche misura, dunque, può darsi che ci appaia bello ciò che è buono, ciò che ci dà piacere. «Secondo questa teoria – chiosa Cerri – l’esperienza estetica si nutre, ed è proprio il caso di usare questo verbo, di quelle stesse sensazioni che il buono, inteso come cibo, suscitava e suscita dentro di noi».

 

Federica Sgorbissa si avventura invece nel significato evolutivo della bellezza, a partire da una prospettiva singolare, già adottata da Charles Darwin in una lettera ad Asa Gray del 1860. «Ogni volta che vedo una penna di pavone – scriveva il padre della teoria dell’evoluzione – mi sento male». E c’è da capirlo. Perché se i caratteri esteriori da una parte possono indicare la capacità di sopravvivenza ed evolutiva di un individuo, dall’altra – quando i richiami estetici diventano un ingombrante fardello – possono rendere una specie più vulnerabile. È il caso del pavone, ma anche dell’alce irlandese, animale che si è estinto alla fine dell’ultima glaciazione forse anche per i troppo voluminosi palchi di corna. E sì, forse la bellezza salverà il mondo. Se solo sapessimo a che serve.

 

 

Alessandra Fais- Comitato Scientifico UPE

Voce di Chiara Lenzi

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